Opera Sommatino

MONUMENTO AI MINATORI DI SOMMATINO

dello scultore ANGELO SALEMI

PRESENTAZIONE Sommatino 7 gennaio 2016

Oltre sei tonnellate ridotte, nelle varie fasi scultoree alle tre e 200……. Due blocchi di pietra calcarenite per esprimere un luogo  della Sicilia: la terra  per antonomasia della nascita e del lutto, delle visioni che continuamente la rievocano ora attraverso i colori che improvvisamente cominciano a cantare a squarciagola, ora col timbro scabro e scuoiato di una struttura compositiva che ti penetra l’anima.

       Un monumento a ricordo dei minatori tutti di una Sommatino che li ha consegnati per ben due volte alla terra. Prima alle sue cavità, perché col vigore dei loro anni giovanili presto consumati proprio nel buio di quelle cavità, facessero riaffiorare quelle masse di giallo irrespirabile che è valso a riempire  e saziare l’insofferente avidità degli sfruttatori trasformati in datori di lavoro ma solo nella conveniente condizione che qualcuno avrebbe pur dovuto fare, ahimè,  quel lavoro sotto terra. E una seconda volta perchéun paese di miniere consegna i suoi minatori alla terra: quando il loro cuore smette di pulsare, perché ha abbandonato ogni briciola di resistenza e quel paese dunque affida proprio alla terra la fine di quella sofferenza. La sofferenza più grande? Quella di non aver potuto godere mai abbastanza della meravigliosa luce del sole durante la loro vita consumata proprie nelle tenebre di quelle cavità.

       Tradurre tutto ciò in opera d’arte è merito solo degli artisti veramente capaci di garantire un senso ad una realtà martoriata. E farlo con la trepidante stasi di una scultura, dei suoi piani, delle sue ombre e dei suoi riflessi prodotti dal giallo sfumato della calcarenite e dalla capacità del suo Autore di darle vigore, non è semplice come si possa immaginare.

       Ringrazio immensamente chi mi ha offerto la possibilità di presentare quest’opera del maestro Angelo Salemi perché ne potessi fare un’analisi critica dal punto di vista artistico, Luigi Galante, così come esprimo insieme ai sommatinesi tutti la mia gratitudine al donatore di questa monumentale opera, Rino Galante, che lascia così cogliere tutta la sua sensibilità ed il forte legame della memoria ad un passato sempre presente nella vita dell’uomo. 

       Gentilissimi presenti, mi pare corretto sottolineare che il critico che presenta un’opera abbia sempre maggiore responsabilità rispetto all’Autore. Ma mi piace anche aggiungere che se un’opera d’arte risulta essere un prodotto dotato di grande ambizione comunicativa, qual è l’opera di Angelo Salemi che abbiamo appena scoperto col plauso di tutta questa piazza, tanto più il critico vi coglie la moltiplicata proliferazione di “microtesti” che parlano all’occhio di chi osserva.

       E, per quanto mi riguarda, potendo osservare questa monumentale opera dal suo nascere, è come se mi fossi messa in ascolto e in dialogo con l’opera stessa scoprendone la interdisciplinarietà che poi mi ha fatto approdare, stricto sensu, alla sua analisi critica con le lenti dello storico, del sociologo, dello psicologo, dello scrittore, dell’artista (onde capire e “far capire” l’individualità dell’altro, in questo caso dell’ autore dell’opera, di Angelo Salemi, e proprio entro una struttura dialogica). In pratica, si tratta di tradurre l’opera ma non nel senso di spiegarla… bensì di rivelare tutte le condizioni che producono i vari possibili effetti alla sua visione e alla sua espressione.

       Quando ho visto per la prima volta l’opera era ancora nelle sue prime fasi di lavorazione e tutta la storia del mondo minerario, e del suo aspetto socio-storico, mi  parve si concentrasse nel pugno sinistro di un nobiluomo, magari  del proprietario della miniera o del  Direttore  o di un Capomastro,  un galantuomo dallo sguardo totalmente indifferente e quasi volutamente appartabile… e mai appartato… dal contesto scultoreo: un pugno serrato, il suo, che lascia cogliere tutta la nervatura di una mano  che potrebbe stringervi o soffocarvi la  rabbia per la lentezza di uno “stirraturi” ormai stanco; o un pugno stretto quasi a volere frenare l’impeto di una sgridata spietata; o un pugno da atteggio, ossia l’equivalente di un’autorità resa manifesta con un pugno stretto ad esprimere proprio il rigore di chi comanda, di chi conta le ore per saziarsene quanto più possibile, di chi ignora l’altrui fatica evitando di coglierla in un volto ormai inespressivo, rassegnato, emaciato dalla fatica e dal silenzio: un silenzio, quello del minatore, equivalente soltanto al tacere forzato di un “sì “ al bisogno di lavorare” ma mai un “si” alla consumazione della propria esistenza nel ventre di quella terra mai suffragata da un raggio di luce e dove appena un suo spiraglio era costituito soltanto dalla citalena o da quello di una semplice “lucerna ”di creta e olio che i “spaddrafora” portavano fino a quando la sua fiammella non si estingueva lenta   per consumazione.

       E non mi pare un caso che questa figura, col suo sguardo buttato in una lontananza più o meno prossima, si imponga su uno dei due blocchi che vediamo scissi…ma congiunti al contempo da un anello sulla parte superiore e da malta cementizia sulla piattaforma, come scissi e congiunti erano nella miniera di Trabia Tallarita e sono, in tutte le miniere del pianeta Terra, i due mondi: quello del minatore con le sue 16 h di lavoro quotidiano e quello del capomastro, o  dell’ingegnere o del perito minerario o dello stesso Catastaro.

       E questa è Storia, gentili convenuti, storia di un paese come Sommatino, storia del suoi numerosi abitanti minatori, storia di quella parte dell’umanità meno fortunata e più produttiva, meno fortunata ma molto più forte nella volontà di sfidare il tempo e le sue ragioni, storia del singolo che col buio ha raggiunto un compromesso: la propria vita per la vita dei figli, la propria vita per la vita della propria donna che mai vorrà pensare che l’urlo della sirena della miniera stia chiamando anche lei all’appello delle donne di tutti quegli uomini fracassati nelle ossa e sguardi fissi nel vuoto.

Due i blocchi di pietra di calcarenite dunque. E due vite diverse, due condizioni sociali diverse, due anime diverse nell’artista: quella  che soffre – perché l’artista Salemi si cala nella psicologia e nel vissuto di chi ha patito la sensazione di schiacciamento sotto il sovraccarico dello zolfo, della rabbia e della sofferenza che più che nella muscolatura di questa nostra statuaria figura, che  appare piuttosto affusolata e snervata,   si concentrano nel corrucciamento e nelle pieghe  della sua fronte – e quella (l’anima) che crea la vita…attraverso un bambino che insieme alla figura adulta vediamo uscire dalla pietra, o dalla cava,  ma con un altro carico: il carico del globo terrestre, il carico di  un mondo che molti bambini… che noi abbiamo chiamato e chiamiamo “i carusi” … hanno sognato, un mondo sempre immaginato, voluto diverso, un mondo per la vita e non per la morte, così come la vita di ogni uomo nel mondo viene  dalla terra impastata e alitata dal soffio di vita di  Dio Padre e Creatore e dal ventre della Madre Terra, sacro come sacro è il ventre di una mamma.

       Un bambino che voglio immaginare sfuggito al suo picconiere ora che ha riempito il suo calcherone di aria pulita, di luce del giorno e di speranza; e che ora porterà a casa il sorriso della libertà e del riscatto da quel “succursu muortu” (la misera paga in cambio di un pezzo di pane o di cibo cotto)…elemosinato dai picconieri ai suoi genitori. Ora il Maestro Salemi ci fa pensare  che “u carusu” (l’appellativo deriva dal latino CARENS USU = mancante di esperienza) è scampato per sempre allo scoppio del grisou e alla morte, perché è giunta la fine di quella condizione di vita per i carusi della miniera, perché ora siamo tra il 1967 e il 1980 e i “carusi” non scenderanno mai più nelle viscere della terra. E parla questo bambino del nostro monumento che garantisce e garantirà sempre maggiore lustro a questa piazza. E parla a nome di tutti i bambini che già a 6 anni lavoravano riempendo calcheroni e stirriatura da  portare in superficie; quei bambini poi sgravati da questo peso dal Provvedimento Legislativo (n. 3657 dell’11 febbraio 1886) che li immetteva al lavoro nelle miniere all’età di 10 anni e non 6, come avessero avuto un premio di buona condotta.

       E il monumento, nella bellezza del colore della calcarenite volutamente giallino per essere accostato al colore dello zolfo, riserva agli occhi dell’attento fruitore particolari che non sfuggono al suo occhio.

Due mani escono dal meraviglioso bassorilievo, o meglio…le pieghe delle falangi di una mano tra il costato sinistro del minatore e la massa di calcarenite nel suo punto di congiunzione all’altra metà del blocco; una mano che non sfugge all’occhio attento e che pone ancora una volta di fronte ad un interrogativo. Di chi è questa mano? Può benissimo leggersi come la mano dello stesso minatore nel tentativo di guadagnare aria facendo leva sulla parete di pietra. Ma vi si coglie anche la mano ormai debole e provata di chi magari non sarà riuscito a varcare la soglia che porta alla luce. Ce lo dicono, ma soprattutto ce lo fanno avvertire non senza un moto di commozione quelle falangette, quelle dita ormai rassegnate perché consapevoli della loro debole presa. Mentre un’altra mano fuoriesce decisa, caparbia, tenace …forse esce da una crepa… ma esce con la determinazione di una mano possente e robusta, la cui presa è molto più forte fino a lasciare scavate nella pietra calcarea le strisce della sua forza, strisce quasi verosimili a lingue di fuoco roventi, a significare quanto nella sua apparente sottomissione il minatore abbia conservato la sua dignità di uomo, di lavoratore e la purezza delle sue mani che… anche se sempre sporche e arroventate dal dolore…rimangono simbolo di purificazione come simbolo di purificazione è il fuoco. Ma è anche la mano della morte che spietata e lenta consuma la sua preda sotto le viscere della terra dove vuole condurlo, per sempre.

Tre figure umane, dunque, ciascuna col proprio messaggio da trasmettere che è il messaggio dell’Artista, della sua sensibilità attraverso questa sua opera; un’opera scultorea che ora va quasi a completarsi e ad identificarsi mentre libera si staglia nel cielo di Sommatino, coi suoi minatori di Trabia Tallarita. E’ Sommatino che Angelo Salemi ha voluto poggiare ai piedi di queste tre figure, ma soltanto perché Sommatino sia il loro piedistallo e non piattaforma e perché Sommatino si ricordi di rimanere narratore di storie di vite umane e garante – nei confronti della memoria di noi tutti – che nessuno mai dimenticherà e che nessuno di noi potrà mai estinguere il debito morale nei confronti del minatore che indossò la sua bella giacca, cravatta e cappello soltanto nel dì di festa ma il cui vero abito fu per tutta la vita  soltanto un giro di tela attorno alla vita sempre sporca e bagnata di sudore.

Ma il monumento, con tutta la sua loquacità silente, si apre al cuore e alla vista di ciascun sommatinese (o straniero o forestiero visitatore) non in questi suoi tre lati scolpiti e che personalmente vedo e colgo come la parte ultima dell’opera anche se diligentemente creata con maggiore dovizia di dettagli e grande grande fatica, perché quella che alla visione di tutti può pervenire come la facciata di minore importanza è la facciata principale, la facciata d’incipit dell’opera intera, la più importante perché è la chiave di lettura dell’intera opera. È la copertina di un bel romanzo che ha venduto milioni di copie.  Di solito tutti siamo portati a vedere soltanto ciò che è in bella vista: il dipinto di un autore e non la cornice; un bel viso di donna truccato e mai rugoso e al naturale; la bellezza della chioma di un albero e non le sue radici nascoste che sono tutta la sua vita.

Dico ciò perché sono estremamente convinta che la grandezza e bellezza di quest’opera che abbiamo scoperto poc’anzi alla visione di tutti si riassumano nella sua parte più nascosta e che l’Autore, diligentemente, ha voluto lasciare visibile: il lato posteriore dei due blocchi, che è tutt’altro che il lato posteriore se da solo garantisce il significato  peculiare dell’intera opera di Salemi. Un lato liscio all’inizio ma che, ero sicura , era già destinato a divenire soggetto, cornice preziosa, dipinto, foto, suono, musica, versi, sotto i colpi di scalpello e punteruolo di Angelo Salemi. Sarebbe stato molto riduttivo privare quest’opera della bellezza del messaggio che per sempre leggeremo in quella che forse perviene a noi come la parte più nascosta al sole ma la meno silenziosa: una parete dove pullulano tante toppe, nel chiacchiericcio di chiavi mai arrugginite dal tempo, chiavi invisibili, minuscole, grandi e sempre a portata di mano. Toppe di tutte le misure per chiavi di tutte le misure. Toppe dello scrigno mai sigillato della memoria. Basterà una chiave, piccola e alla portata di bambino e delle sue capacità di “sentire col cuore” per entrare nell’opera di A. Salemi. O una chiave di media grandezza perché un giovane di oggi, che poco sa del mondo dei minatori, entri coraggiosamente nell’opera e ne colga almeno parzialmente il significato, il messaggio. O una chiave gigantesca nella più grande delle toppe per accedervi tutti e in toto, e capirla… e viverla…quest’opera come l’ha capita e vissuta il suo Autore, Angelo Salemi, che non poteva trovare – per noi tutti -altre chiavi di lettura  del passato socio-storico e artistico di questo delizioso paese che è Sommatino e della sua preziosa gente, sicuramente molto più preziosa dello zolfo e delle sue miniere. Chiavi e toppe, sono… e rimangono… la prima pagina di questo monumento e ce ne facilitano la lettura. Chiavi e toppe per entrare ed uscire dal mondo dei minatori sconosciuto ai più, oggi, ma soprattutto per accedere alla conoscenza, perché conoscere è sapere e il sapere ha reso sempre l’uomo libero. Chiavi e toppe, dunque, per essere liberi e non morire nelle pieghe anguste dell’ignoranza.

Grazie Angelo Salemi per questo tuo messaggio chiaro, trasparente e per avere garantito mente, mani e anima a questo monumento. Le tue mani e la tua intelligente creatività stamane, a punta di scalpello e punteruolo, penso abbiano toccato la punta dei nostri nervi e toccato la nostra sensibilità spesso assopita. E un complimento mi sia consentito esprimere al Dott. Rino Galante che, donando quest’opera a Sommatino, ha equiparato la sua… alla grande  sensibilità del suo Autore. Grazie a tutti per avermi ascoltata.

                                                      Lina Riccobene

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